giovedì 11 giugno 2015

The Shadows - Capitolo V



THE SHADOWS

Ho deciso di riproporre come l’anno scorso la traduzione di alcuni capitoli del nuovo libro della Ward con protagonisti Trez e iAm, fino all’uscita della traduzione italiana della mondo libri.
Aspetto ancora con ansia altri vostri commenti e prego di citare la fonte se mai vorrete prendere in prestito questa traduzione.
La traduzione è amatoriale e senza scopo di lucro.
Alcune parti non sono tradotte letteralmente perché era impossibile trascrivere in italiano quello espresso in inglese, soprattutto modi di dire.




CAPITOLO V


Nella suite della clinica del centro di addestramento, Luchas, figlio di Lohstrong, giaceva supino in un letto d'ospedale con il busto e la testa sollevati sui cuscini. Il suo corpo spezzato era disteso davanti a lui, un po' come un paesaggio crivellato da bombe, cicatrici e pezzi mancanti che trasformavano ciò che in precedenza funzionava bene e in maniera appropriata in un miscuglio di doloroso, debilitante malfunzionamento.
La sua gamba sinistra era il problema più grande.
Fin da quando era stato tratto in salvo da quel barile in cui i lesser l'avevano imprigionato, lui stava vivendo un periodo di "riabilitazione."
Parola strana per quello che realmente gli stava accadendo. La definizione ufficiale, come aveva scoperto cercandola su un tablet, era ripristinare in qualcuno o qualcosa il precedente stato di normale funzionamento.
Dopo tanti mesi di ginnastica e terapia occupazionale, tuttavia, si sentiva sicuro nell'affermare che tutto quello scervellarsi mentalmente e fisicamente in piena notte non lo stava avvicinando al vecchio se stesso più di quanto non si potesse far tornare indietro il tempo. Aveva solo alcune certezze: soffriva come un cane; non riusciva ancora a camminare; e le quattro pareti di quella camera d'ospedale, che erano tutto quello che aveva visto da quando era stato imprigionato in quella immobilità soffocante. Tutto questo lo stava facendo impazzire.
Non per la prima volta, si chiese come la sua vita si fosse ridotta a questo.
Il che era stupido. Conosceva i fatti, oh, li conosceva talmente bene. La notte degli assalti, gli assassini si erano infiltrati nella casa della sua famiglia, come avevano fatto con tanti altri. Avevano massacrato il padre e la sua mahmen, e fatto lo stesso a sua sorella. Quando erano arrivati a lui, avevano deciso di risparmiargli la vita in modo da usarlo come cavia, un test per scoprire se un vampiro poteva essere trasformato in un lesser. Dopo averlo reso impotente, lo avevano chiuso in un barile e immerso nel sangue dell'Omega.
Non c'era stato alcun test, comunque. Avevano perso interesse, o lo avevano dimenticato, oppure era venuto fuori qualche altro risultato.
Impossibilitato a liberarsi, aveva sofferto in quel denso vuoto nero, ancora in vita ma a malapena vivo, in attesa che il suo destino si compisse, per un tempo che aveva percepito come un'eternità.
Non sapendo se in qualche modo fosse stato trasformato.
La sua mente, un tempo motivo di grande orgoglio per i suoi successi scolastici e le capacità, si era paralizzata come il suo corpo, contorcendosi su se stessa, quelli che una volta erano chiari percorsi di pensiero si aggrovigliavano in un incubo oscuro di paranoia e terrore.
E poi suo fratello, quello per cui non aveva mai avuto tempo da dedicargli, quello che aveva guardato dall'alto in basso, quello a cui si era sempre sentito così superiore... era ​​diventato il suo salvatore. 
Qhuinn, l'aberrazione con un occhio blu e l'altro verde, la vergogna della famiglia con quel mostruoso difetto, colui che era stato sbattuto in mezzo a una strada e che non si trovava in casa quando c'era stato l'attacco, era l'unica ragione per cui era riuscito a liberarsi.
Quel maschio si era rivelato essere il membro più forte della discendenza, viveva e lavorava con la Confraternita del pugnale nero, combatteva con onore, difendendo la razza contro il nemico con distinzione.
Mentre Luchas, l'ex ragazzo d'oro, l'erede di una casata che non esisteva più... ora era lui quello imperfetto.
Era forse il karma?
Sollevò la mano ormai straziata, fissando i monconi che erano tutto ciò che rimaneva di quattro delle sue cinque dita.
Possibile.
Il bussare alla porta era leggero, e mentre inalava, colse i profumi presenti dall'altra parte. Preparandosi, tirò le lenzuola più in alto sul suo petto scarno.
L'Eletta Selena non era sola, come lo era stata la scorsa sera.
E sapeva di cosa si trattava.
“Entrate” disse con una voce che ancora stentava a riconoscere come propria. Da quando era cominciato il calvario, il suo timbro era diventato roco, più profondo.
Qhuinn entrò per primo, e per un istante, Luchas si ritrasse. Ogni volta che aveva visto suo fratello in precedenza, il maschio indossava abiti civili. Non stasera. 
Era chiaramente venuto fresco dal teatro del conflitto, il suo corpo potente ricoperto di pelle nera, armi legate ai fianchi, alle cosce... al petto.
Luchas aggrottò la fronte quando notò due particolari strumenti da combattimento: suo fratello aveva un paio di pugnali neri sullo sterno, le maniglie verso il basso.
Strano, pensò. Sapeva che queste lame erano riservate ai soli membri della Confraternita del pugnale nero.
Forse ora avevano concesso di indossarli anche ai loro soldati?
“Ehi” esclamò Qhuinn.
Alle sue spalle, l'Eletta Selena era silenziosa come un fantasma, la sua veste bianca fluttuava intorno al corpo esile, i capelli scuri acconciati in alto sulla testa nello stile tradizionale del suo ordine sacro.
“Buonasera, padrone” disse con un elegante inchino.
Fissando la sua gamba, Luchas desiderò disperatamente di poter scendere dal letto e mostrarle il rispetto che le era dovuto. Non era un'opzione. L'arto era, come sempre, avvolto stretto in garza bianca dalla punta del piede fino al ginocchio, e sotto quella copertura sterile? Carne che non sarebbe guarita, il calore dell'infezione che sobbolliva come una pentola d'acqua al limite dell'ebollizione.
“Mi dicono che hai smesso di nutrirti” affermò Qhuinn.
Luchas distolse lo sguardo, desiderando che ci fosse una finestra in modo da fingersi distratto.
“Allora?” domandò Qhuinn. “È vero?”
“Eletta” mormorò Luchas. “Gentilmente, ci concedete un momento da soli?”
“Naturalmente. Attenderò la vostra chiamata.”
La porta si chiuse silenziosamente. E Luchas si accorse che tutto l'ossigeno nella camera sembrava essersene andato con la femmina.
Qhuinn mise una sedia vicino al comodino e si sedette, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Le spalle erano così ampie che la giacca di pelle scricchiolò in segno di protesta.
“Cosa sta succedendo, Luchas?” chiese.
“Non era una cosa importante, poteva aspettare. Non saresti dovuto rientrare dal combattimento.”
“Non secondo i tuoi segni vitali.”
“Quindi è stata la dottoressa a richiamarti, vero?”
“Me ne ha parlato, sì.”
Luchas chiuse gli occhi. “Io avevo...” Si schiarì la gola. “Prima di tutto questo, avevo un'idea di quello che avrei voluto fare, di come sarebbe stato il mio futuro. Io stavo per...”
“Stavi per diventare come nostro padre.”
“Sì. Volevo... tutte le cose che mi erano state insegnate e che definivano una vita che valesse la pena di essere vissuta.” Sollevò le palpebre e fissò il suo corpo. “Questo non ne fa parte. Questo... sono come un bambino. Qualcuno si occupa dei miei bisogni, portandomi cibo, lavandomi, asciugandomi. Sono un cervello intrappolato in un contenitore rotto. Non so badare a me stesso…”
“Luchas …”
“No!” scattò con gesto della mano mutilata. “Non provare a rabbonirmi con promesse di una salute futura. Sono passati nove mesi, fratello mio. Preceduti da una prigionia nell'inferno che è durata un secolo. Non ce la faccio più a sentirmi un prigioniero. Basta, ho chiuso.” 
“Non puoi suicidarti.”
“Lo so. Allora io non entro il Fado. Ma se non mangio e non mi nutro, questa” conficcò un dito nella sua gamba “lo farà al posto mio, portandomi via. Non è suicidio. È morte per sepsi … non è quello che preoccupa maggiormente Doc Jane?”
Con un movimento brusco, Qhuinn si tolse la giacca e la lasciò cadere sul pavimento. “Io non voglio perderti.”
Luchas si coprì il volto con le mani. “Come puoi volerlo... dopo tutte le crudeltà che hai subito in casa nostra...”
“Non sei stato tu. Erano i nostri genitori.”
“Io ho partecipato.”
“E sei perdonato.”
Almeno aveva fatto una cosa giusta. “Qhuinn, lasciami andare. Ti prego. Lasciami... andare.”
Il silenzio che seguì durò talmente a lungo che il respiro di Luchas si alleggerì, sicuro che la sua richiesta fosse stata accettata.
“So cosa si prova a non avere speranza” disse Qhuinn con asprezza. “Ma il destino è capace di sorprenderti.”
Luchas lasciò cadere le braccia e rise amaramente. “Non in senso buono, temo. Non in senso buono…”
“Ti sbagli…”
“Smettila …”
“Luchas. Ti sto dicendo…”
“Sono un invalido, cazzo!”
“Come lo sono stato io.” Qhuinn indicò i propri occhi. “Per tutta la vita.”
Luchas si voltò, posando lo sguardo sulla parete color crema. “Non c'è niente che tu possa dire per convincermi, Qhuinn. È finita. Sono stanco di lottare per una vita che non voglio.”
Un altro silenzio teso. Alla fine, Qhuinn imprecò tra i denti. “Hai solo bisogno di nutrirti e riprendere le forze…”
“Io rifiuterò sempre la sua vena. Faresti meglio ad accettare la mia decisione adesso e non sprecare ulteriore tempo con argomenti che non trovo convincenti. Ho chiuso.”


Mentre Selena attendeva nel corridoio, la stanchezza la avvolse in pesanti drappi non meno reali solo perché invisibili. E comunque si sentiva ansiosa. Giocherellava con la veste, i capelli, le mani.
Non le piaceva il tempo che non veniva investito nei suoi doveri. Con niente a tenerla occupata, i suoi pensieri e le paure diventavano troppo intensi per contenerli dentro il cranio.
Eppure lei immaginava ci fosse un utilità in questa solitudine. Se fosse riuscita a prendere una posizione per trarne vantaggio.
Quel che doveva fare mentre aspettava lì fuori era esercitarsi nel suo commiato. Doveva provare a comporre le parole che avrebbe voluto dire prima che non avesse più tempo. Doveva trovare il coraggio necessario per esternare ad alta voce quello che aveva nel cuore.
Stava per seguire l'impulso di dire addio a Trez.
Tra le molte persone che avrebbe lasciato, il Primale e le sue sorelle Elette, i Fratelli e le loro shellan, Trez era l'unico per cui già soffriva. Anche se non lo vedeva da... molte, molte notti.
Anche se non era più stata sola con lui da... molti, molti mesi.
Infatti, dopo aver concluso la loro... relazione, o quello che era, lui se n'era andato dalla magione. Non importava che lei andasse e venisse, non lo aveva mai incontrato faccia a faccia, e solo occasionalmente aveva intravisto le sue grandi spalle mentre si avviava nella direzione opposta alla sua.
Che la evitasse era stato un sollievo infido in un primo momento. Sarebbe stato più difficile lasciarlo, e lo sarebbe stato ancora di più se avessero continuato a vedersi. Ma ultimamente, mentre il tempo a sua disposizione diminuiva drasticamente, lei aveva deciso che aveva bisogno di dirgli...
Beata Vergine Scriba, cosa stava per dirgli?
Selena lasciò scorrere lo sguardo lungo il corridoio, come se quel piccolo, perfetto monologo potesse scorrere con docilità, a un ritmo abbastanza lento da poterlo memorizzare.
Per quanto ne sapeva, lui aveva dimenticato i momenti passati insieme. Per sua stessa ammissione, era esperto nel trovare passatempi femminili nella varietà umana.
Non c'era dubbio che avesse fatto tabula rasa.
E poi c'era la realtà che lui era stato promesso a un'altra.
Selena si prese la testa tra le mani. Per tutta la sua vita, aveva trovato conforto e uno scopo nel suo sacro compito - per cui era stato uno shock scoprire che mentre si avvicinava sempre più al momento della sua morte, l'unica cosa che si sentiva di far bene era il suo commiato da un uomo che non le apparteneva. Con cui aveva avuto una storia di brevissima durata.
C'erano state molte notti che aveva passato nella sua camera da letto su a Grande Camp, cercando di convincersi che quello che era successo con Trez era pura follia, ma ora che il tempo stava per scadere? Una strana lucidità si concentrò in lei. E non importava il perché. Importava solo che lei raggiungesse l'obiettivo di dirgli ciò che provava prima di morire.
Non voleva avvicinarsi a lui troppo presto, però - sarebbe stato piuttosto imbarazzante sviscerare la propria anima a una persona indifferente e poi indugiare per notti, settimane, mesi.
Se solo la sua fine fosse avvenuta in una data precisa, come se fosse la scadenza su un cartone di latte…
Qhuinn uscì dalla stanza d'ospedale, e l'espressione tesa sul suo volto duro spazzò via la sua preoccupazione.
“Mi dispiace tanto” mormorò lei. “Si rifiuta ancora?”
“Non riesco a convincerlo.”
“La volontà di vivere può essere complicata.” Selena allungò la mano e gliela poggiò sulla spalla. “Sappiate che io sono qui per entrambi. In qualsiasi momento cambiasse idea, io verrò.”
“Tu sei davvero una femmina di valore.”
La strinse in un rapido, duro abbraccio e poi corse giù lungo il corridoio, come se volesse lasciare la struttura. Ma poi si fermò davanti alla porta chiusa della sala visite principale della dottoressa Jane. Dopo un momento, entrò.
Mentre pregava ci fosse una soluzione per i due fratelli, un'altra ondata di stanchezza la investì, una più grossa di quello che l'aveva travolta davanti a Tohrment, strisciando attraverso il suo corpo, facendole appoggiare una mano contro il muro per paura di cadere. Il panico la sopraffece, il suo cuore pestava selvaggiamente nel petto, la testa era inondata di fai questo, fai quello, scappa. Cosa sarebbe successo se quello fosse stato un attacco? E se fosse il suo ultimo -
“Ehi, stai bene?”
Forzando i suoi occhi vuoti a voltarsi verso il suono, vide Tohrment uscire dalla sala visite.
“Io...”
All'improvviso, la sensazione di vertigine scomparve, come se l'avesse avvicinata un rapinatore che, confrontandosi con il Fratello, aveva riconsiderato il suo attacco.
Sotto la tunica, lei sollevò una gamba e poi l'altra, non trovando alcun cenno della resistenza fatale che la terrorizzava a morte.
“Selena?” esclamò Tohr dirigendosi verso di lei.
Appoggiandosi al muro, la sua mano corse allo chignon, e si accorse di avere la fronte madida di sudore.
“Credo di dovermi occupare di me stessa al Santuario.” Espirò. “Mi riprenderò lì. È necessario.”
“È un'idea eccellente. Ma sei sicura di riuscire a…”
“Sto bene.”
Chiudendo gli occhi, Selena si concentrò e... con una rotazione dell'asse terrestre e una scossa alle molecole del suo cervello, invece di quelle del corpo, si smaterializzò e si ricompattò nel sacro luogo di pace della Vergine Scriba.
All'istante, proprio come se avesse succhiato direttamente da una vena, il suo corpo si alleggerì e fortificò, ma la sua mente non seguì l'esempio - nonostante il verde brillante delle foglie degli alberi e dei fili d'erba, le tinte pastello dei tulipani perennemente in fiore, il luminoso marmo bianco del dormitorio, il Tesoro, il Tempio delle Scrivane Segregate, lo Stagno dei Riflessi, si sentiva braccata anche se era chiaramente al sicuro.
Inoltre, soffrire di una malattia mortale della durata indefinita rendeva difficile riconoscere la differenza tra i sintomi che rientravano nella dicitura "normale", e quelli di maggiore rilevanza.
Per un po' rimase nello stesso punto in cui era arrivata, temendo, muovendosi, di innescare la manifestazione della propria malattia. Ma alla fine, cominciò a passeggiare. La temperatura dell'aria ferma era perfetta, né troppo calda né troppo fredda, il cielo al di sopra brillava di un azzurro fiordaliso, le terme risplendevano sotto la strana luce circostante... e si sentì come se fosse sola in un vicolo buio nel centro di Caldwell.
Quanto tempo? si chiese. Quante altre passeggiate avrebbe potuto godersi?
Tremando, si strinse nella veste mentre un consueto senso di tristezza e d'impotenza irruppe dentro lei, le schiacciò il petto, rendendole difficile respirare. Ma non si arrese alle lacrime. Le aveva versate tutte qualche tempo prima, tutti i perché-io, i cosa-succederebbe-se, e ho-bisogno-di-più-tempo erano terminati - prova che ci si abituava anche all'acqua bollente se ci stava dentro abbastanza a lungo.
Era venuta a patti con la realtà che non solo non le era stata concessa una vita completa, ma non avrebbe vissuto per niente - per cui, sì, doveva decidersi a salutare per sempre Trez. Lui era ciò che più si avvicinava a qualcosa che poteva definire suo, una scelta personale al posto di un'imposizione, un qualcosa che aveva conquistato, anche se per poco tempo, non un compito che le era stato assegnato.
Nel dirgli addio, Selena riconosceva che parte della sua vita le era appartenuta.
Lo avrebbe contattato il giorno seguente.
Al diavolo l'orgoglio...
Dopo un po', si accorse che i piedi l'avevano condotta al cimitero, e data la direzione dei suoi pensieri, non ne era sorpresa.
Le Elette erano essenzialmente creature immortali, create molto tempo prima come parte di programma di procreazione della Vergine Scriba dove i maschi più forti si accoppiavano con le femmine più intelligenti per garantire la sopravvivenza della specie. In principio, le femmine fertili venivano messe in quarantena lì, con il Primale come unico maschio a servirle per l'inseminazione. Tuttavia, col passare dei millenni, il ruolo delle Elette si era evoluto in modo da servire spiritualmente la Vergine Scriba, documentare la storia della Razza svoltasi sulla Terra, adorare la Madre della specie, e fungere da fonti di sangue per i membri della Confraternita senza compagne - per le quali alcuni avevano abbandonato il proprio ruolo, accettando la mortalità in cambio dell'amore, della libertà, della possibilità di generare bambini che non sarebbero stati condannati da rigide tradizioni.
E poi era arrivato l'attuale Primale, rinnovando anche le tradizioni più antiche.
Selena guardò attraverso il traliccio ad arco del cimitero; le statue di marmo delle sue sorelle si stagliavano minacciose nonostante fossero a una certa distanza e nascoste nei loro verdi confini.
Per tutto ciò di buono che l'antico programma di procreazione aveva fatto, ne era risultato anche qualcosa di infido, una prigione da cui, per quanto il Primale fosse di mentalità aperta, non poteva liberare Selena e le sue sorelle.
Nascosta nel profondo delle cellule delle Elette, giaceva una debolezza critica latente, un difetto creatosi proprio a causa del gruppo limitato di creature prescelte per la procreazione per rendere i vampiri invincibili.
Un sacrificio al fine di raggiungere la forza. La prova che la Madre della Razza poteva essere, e sarebbe stata, limitata da Madre Natura.
Le statue dall'altro lato la riempivano di terrore. Le eleganti figure all'interno del terreno circoscritto in realtà non erano di pietra - non nel senso che erano state scolpite da blocchi. Erano il corpi congelati di coloro che hanno sofferto dalla sua stessa malattia.
Erano i cadaveri delle sue sorelle che aveva percorso il sentiero calpestandolo con i propri piedi, irrigidite in pose di loro scelta, sigillate in un bel intonaco minerale che, insieme alle curiose proprietà atmosferiche del Santuario, li avrebbe preservati per l'eternità.
Il tremore la invase di nuovo come un'onda … e ancora una volta, si interruppe.
Questa volta, però, la cessazione non accompagnava un ritorno alla normalità.
Come se la vista di quei corpi paralizzati all'ultimo stadio fosse una sorta di ispirazione nei confronti di ciò che l'affliggeva, le giunture più ampie della parte inferiore del suo corpo si bloccarono, seguite dalla spina dorsale, i gomiti, il collo, i polsi. Si paralizzò completamente, immobile ma del tutto consapevole, il suo cuore che continuava a battere, gli occhi limpidi, la mente iperattiva in preda al panico.
Con un grido, provò a liberarsi di tutto, cercò di piegare le gambe, combatté per spostare i piedi, le braccia, tutto.
Ci fu un lieve cedimento sul lato sinistro, e che la sbilanciò. Dopo uno sbandamento e una giravolta, cadde a terra a faccia in giù, i sottili fili di erba le entrarono nel naso, nella bocca, negli occhi. Sapendo che rischiare di soffocare, mise tutta la forza che aveva per voltare la testa di lato in modo che le vie respiratorie fossero libere.
E quello si rivelò essere il suo l'ultimo movimento.
Dal suo punto di osservazione, era una telecamera rovesciata, la curiosa angolazione del Santuario sembrava come proiettata su uno schermo: fili d'erba in primo piano grandi come alberi, con il tempio dello Stagno dei Riflessi in lontananza, di cui si vedeva solo il tetto.
“Aiuto...” gridò. “Aiuto...”
Lottando contro le proprie ossa, provò a ricordare l'ultima volta che aveva visto ogni delle sue sorelle da quelle parti. Era stato...
Troppe notti prima. E anche allora, nessuno si era avventurato fino a questo punto del paesaggio, il cimitero veniva visitato di rado, e la zona esterna  veniva usata per i sacri riti di commemorazione… che non sarebbero avvenuti per molti mesi.
“Aiuto!”
Con una spinta immane, Selena combatté contro il proprio corpo. Ma tutto ciò che si vide fu una contrazione della mano, le dita scivolarono sul prato.
E questo fu tutto.
Le lacrime le inondarono gli occhi, il cuore martellava incessantemente e, per assurdo, lei desiderò non aver mai che chiesto una scadenza...
Dal profondo delle sue emozioni, l'immagine del volto di Trez - gli occhi neri a mandorla, i capelli rasati neri, la pelle scura - si compose nella sua mente.
Avrebbe dovuto dirgli addio prima.
“Trez...” gemette contro l'erba.
Mentre la sua coscienza si affievoliva, fu una porta che si chiudeva dolcemente, ma con fermezza, bloccando il mondo intorno a lei... tanto che non si accorse, qualche tempo dopo, della piccola, silenziosa la figura che le si avvicinò da dietro, fluttuava sull'erba, una luce splendente fuoriusciva al di sotto della tunica nera ondeggiante.



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