THE SHADOWS
Ho deciso di riproporre come l’anno scorso la
traduzione di alcuni capitoli del nuovo libro della Ward con protagonisti Trez
e iAm, fino all’uscita della traduzione italiana della mondo libri.
Aspetto ancora con ansia altri vostri commenti e
prego di citare la fonte se mai vorrete prendere in prestito questa traduzione.
La traduzione è amatoriale e senza scopo di lucro.
Alcune parti non sono tradotte letteralmente perché
era impossibile trascrivere in italiano quello espresso in inglese, soprattutto
modi di dire.
CAPITOLO V
Nella suite
della clinica del centro di addestramento, Luchas, figlio di Lohstrong, giaceva
supino in un letto d'ospedale con il busto e la testa sollevati sui cuscini. Il
suo corpo spezzato era disteso davanti a lui, un po' come un paesaggio
crivellato da bombe, cicatrici e pezzi mancanti che trasformavano ciò che in
precedenza funzionava bene e in maniera appropriata in un miscuglio di
doloroso, debilitante malfunzionamento.
La sua gamba
sinistra era il problema più grande.
Fin da
quando era stato tratto in salvo da quel barile in cui i lesser
l'avevano imprigionato, lui stava vivendo un periodo di
"riabilitazione."
Parola
strana per quello che realmente gli stava accadendo. La definizione ufficiale,
come aveva scoperto cercandola su un tablet, era ripristinare in qualcuno o
qualcosa il precedente stato di normale funzionamento.
Dopo tanti
mesi di ginnastica e terapia occupazionale, tuttavia, si sentiva sicuro
nell'affermare che tutto quello scervellarsi mentalmente e fisicamente in piena
notte non lo stava avvicinando al vecchio se stesso più di quanto non si
potesse far tornare indietro il tempo. Aveva solo alcune certezze: soffriva
come un cane; non riusciva ancora a camminare; e le quattro pareti di quella
camera d'ospedale, che erano tutto quello che aveva visto da quando era stato
imprigionato in quella immobilità soffocante. Tutto questo lo stava facendo
impazzire.
Non per la
prima volta, si chiese come la sua vita si fosse ridotta a questo.
Il che era
stupido. Conosceva i fatti, oh, li conosceva talmente bene. La notte degli
assalti, gli assassini si erano infiltrati nella casa della sua famiglia, come
avevano fatto con tanti altri. Avevano massacrato il padre e la sua mahmen,
e fatto lo stesso a sua sorella. Quando erano arrivati a lui, avevano deciso di
risparmiargli la vita in modo da usarlo come cavia, un test per scoprire se un
vampiro poteva essere trasformato in un lesser. Dopo averlo reso
impotente, lo avevano chiuso in un barile e immerso nel sangue dell'Omega.
Non c'era
stato alcun test, comunque. Avevano perso interesse, o lo avevano dimenticato,
oppure era venuto fuori qualche altro risultato.
Impossibilitato
a liberarsi, aveva sofferto in quel denso vuoto nero, ancora in vita ma a
malapena vivo, in attesa che il suo destino si compisse, per un tempo che aveva
percepito come un'eternità.
Non sapendo
se in qualche modo fosse stato trasformato.
La sua
mente, un tempo motivo di grande orgoglio per i suoi successi scolastici e le
capacità, si era paralizzata come il suo corpo, contorcendosi su se stessa,
quelli che una volta erano chiari percorsi di pensiero si aggrovigliavano in un
incubo oscuro di paranoia e terrore.
E poi suo
fratello, quello per cui non aveva mai avuto tempo da dedicargli, quello che
aveva guardato dall'alto in basso, quello a cui si era sempre sentito così
superiore... era diventato il suo salvatore.
Qhuinn,
l'aberrazione con un occhio blu e l'altro verde, la vergogna della famiglia con
quel mostruoso difetto, colui che era stato sbattuto in mezzo a una strada e
che non si trovava in casa quando c'era stato l'attacco, era l'unica ragione
per cui era riuscito a liberarsi.
Quel maschio
si era rivelato essere il membro più forte della discendenza, viveva e lavorava
con la Confraternita del pugnale nero, combatteva con onore, difendendo la
razza contro il nemico con distinzione.
Mentre
Luchas, l'ex ragazzo d'oro, l'erede di una casata che non esisteva più... ora
era lui quello imperfetto.
Era forse il
karma?
Sollevò la
mano ormai straziata, fissando i monconi che erano tutto ciò che rimaneva di
quattro delle sue cinque dita.
Possibile.
Il bussare
alla porta era leggero, e mentre inalava, colse i profumi presenti dall'altra
parte. Preparandosi, tirò le lenzuola più in alto sul suo petto scarno.
L'Eletta
Selena non era sola, come lo era stata la scorsa sera.
E sapeva di
cosa si trattava.
“Entrate”
disse con una voce che ancora stentava a riconoscere come propria. Da quando
era cominciato il calvario, il suo timbro era diventato roco, più profondo.
Qhuinn entrò
per primo, e per un istante, Luchas si ritrasse. Ogni volta che aveva visto suo
fratello in precedenza, il maschio indossava abiti civili. Non stasera.
Era
chiaramente venuto fresco dal teatro del conflitto, il suo corpo potente
ricoperto di pelle nera, armi legate ai fianchi, alle cosce... al petto.
Luchas
aggrottò la fronte quando notò due particolari strumenti da combattimento: suo
fratello aveva un paio di pugnali neri sullo sterno, le maniglie verso il
basso.
Strano,
pensò. Sapeva che queste lame erano riservate ai soli membri della
Confraternita del pugnale nero.
Forse ora
avevano concesso di indossarli anche ai loro soldati?
“Ehi”
esclamò Qhuinn.
Alle sue
spalle, l'Eletta Selena era silenziosa come un fantasma, la sua veste bianca
fluttuava intorno al corpo esile, i capelli scuri acconciati in alto sulla
testa nello stile tradizionale del suo ordine sacro.
“Buonasera,
padrone” disse con un elegante inchino.
Fissando la sua
gamba, Luchas desiderò disperatamente di poter scendere dal letto e mostrarle
il rispetto che le era dovuto. Non era un'opzione. L'arto era, come sempre,
avvolto stretto in garza bianca dalla punta del piede fino al ginocchio, e
sotto quella copertura sterile? Carne che non sarebbe guarita, il calore
dell'infezione che sobbolliva come una pentola d'acqua al limite
dell'ebollizione.
“Mi dicono
che hai smesso di nutrirti” affermò Qhuinn.
Luchas
distolse lo sguardo, desiderando che ci fosse una finestra in modo da fingersi
distratto.
“Allora?”
domandò Qhuinn. “È vero?”
“Eletta”
mormorò Luchas. “Gentilmente, ci concedete un momento da soli?”
“Naturalmente.
Attenderò la vostra chiamata.”
La porta si
chiuse silenziosamente. E Luchas si accorse che tutto l'ossigeno nella camera
sembrava essersene andato con la femmina.
Qhuinn mise
una sedia vicino al comodino e si sedette, appoggiando i gomiti sulle
ginocchia. Le spalle erano così ampie che la giacca di pelle scricchiolò in
segno di protesta.
“Cosa sta
succedendo, Luchas?” chiese.
“Non era una
cosa importante, poteva aspettare. Non saresti dovuto rientrare dal
combattimento.”
“Non secondo
i tuoi segni vitali.”
“Quindi è
stata la dottoressa a richiamarti, vero?”
“Me ne ha
parlato, sì.”
Luchas
chiuse gli occhi. “Io avevo...” Si schiarì la gola. “Prima di tutto questo, avevo
un'idea di quello che avrei voluto fare, di come sarebbe stato il mio futuro.
Io stavo per...”
“Stavi per
diventare come nostro padre.”
“Sì.
Volevo... tutte le cose che mi erano state insegnate e che definivano una vita
che valesse la pena di essere vissuta.” Sollevò le palpebre e fissò il suo
corpo. “Questo non ne fa parte. Questo... sono come un bambino. Qualcuno si
occupa dei miei bisogni, portandomi cibo, lavandomi, asciugandomi. Sono un
cervello intrappolato in un contenitore rotto. Non so badare a me stesso…”
“Luchas …”
“No!” scattò
con gesto della mano mutilata. “Non provare a rabbonirmi con promesse di una
salute futura. Sono passati nove mesi, fratello mio. Preceduti da una prigionia
nell'inferno che è durata un secolo. Non ce la faccio più a sentirmi un
prigioniero. Basta, ho chiuso.”
“Non puoi
suicidarti.”
“Lo so.
Allora io non entro il Fado. Ma se non mangio e non mi nutro, questa” conficcò
un dito nella sua gamba “lo farà al posto mio, portandomi via. Non è suicidio.
È morte per sepsi … non è quello che preoccupa maggiormente Doc Jane?”
Con un
movimento brusco, Qhuinn si tolse la giacca e la lasciò cadere sul pavimento. “Io
non voglio perderti.”
Luchas si
coprì il volto con le mani. “Come puoi volerlo... dopo tutte le crudeltà che
hai subito in casa nostra...”
“Non sei
stato tu. Erano i nostri genitori.”
“Io ho
partecipato.”
“E sei
perdonato.”
Almeno aveva
fatto una cosa giusta. “Qhuinn, lasciami andare. Ti prego. Lasciami... andare.”
Il silenzio
che seguì durò talmente a lungo che il respiro di Luchas si alleggerì, sicuro
che la sua richiesta fosse stata accettata.
“So cosa si
prova a non avere speranza” disse Qhuinn con asprezza. “Ma il destino è capace
di sorprenderti.”
Luchas
lasciò cadere le braccia e rise amaramente. “Non in senso buono, temo. Non in
senso buono…”
“Ti sbagli…”
“Smettila …”
“Luchas. Ti
sto dicendo…”
“Sono un
invalido, cazzo!”
“Come lo
sono stato io.” Qhuinn indicò i propri occhi. “Per tutta la vita.”
Luchas si
voltò, posando lo sguardo sulla parete color crema. “Non c'è niente che tu
possa dire per convincermi, Qhuinn. È finita. Sono stanco di lottare per una
vita che non voglio.”
Un altro
silenzio teso. Alla fine, Qhuinn imprecò tra i denti. “Hai solo bisogno di nutrirti
e riprendere le forze…”
“Io
rifiuterò sempre la sua vena. Faresti meglio ad accettare la mia decisione
adesso e non sprecare ulteriore tempo con argomenti che non trovo convincenti.
Ho chiuso.”
Mentre
Selena attendeva nel corridoio, la stanchezza la avvolse in pesanti drappi non
meno reali solo perché invisibili. E comunque si sentiva ansiosa. Giocherellava
con la veste, i capelli, le mani.
Non le
piaceva il tempo che non veniva investito nei suoi doveri. Con niente a tenerla
occupata, i suoi pensieri e le paure diventavano troppo intensi per contenerli
dentro il cranio.
Eppure lei
immaginava ci fosse un utilità in questa solitudine. Se fosse riuscita a
prendere una posizione per trarne vantaggio.
Quel che
doveva fare mentre aspettava lì fuori era esercitarsi nel suo commiato. Doveva
provare a comporre le parole che avrebbe voluto dire prima che non avesse più
tempo. Doveva trovare il coraggio necessario per esternare ad alta voce quello
che aveva nel cuore.
Stava per
seguire l'impulso di dire addio a Trez.
Tra le molte
persone che avrebbe lasciato, il Primale e le sue sorelle Elette, i Fratelli e
le loro shellan, Trez era l'unico per cui già soffriva. Anche se non lo
vedeva da... molte, molte notti.
Anche se non
era più stata sola con lui da... molti, molti mesi.
Infatti,
dopo aver concluso la loro... relazione, o quello che era, lui se n'era andato
dalla magione. Non importava che lei andasse e venisse, non lo aveva mai
incontrato faccia a faccia, e solo occasionalmente aveva intravisto le sue
grandi spalle mentre si avviava nella direzione opposta alla sua.
Che la
evitasse era stato un sollievo infido in un primo momento. Sarebbe stato più
difficile lasciarlo, e lo sarebbe stato ancora di più se avessero continuato a
vedersi. Ma ultimamente, mentre il tempo a sua disposizione diminuiva
drasticamente, lei aveva deciso che aveva bisogno di dirgli...
Beata
Vergine Scriba, cosa stava per dirgli?
Selena
lasciò scorrere lo sguardo lungo il corridoio, come se quel piccolo, perfetto
monologo potesse scorrere con docilità, a un ritmo abbastanza lento da poterlo
memorizzare.
Per quanto
ne sapeva, lui aveva dimenticato i momenti passati insieme. Per sua stessa
ammissione, era esperto nel trovare passatempi femminili nella varietà umana.
Non c'era
dubbio che avesse fatto tabula rasa.
E poi c'era
la realtà che lui era stato promesso a un'altra.
Selena si
prese la testa tra le mani. Per tutta la sua vita, aveva trovato conforto e uno
scopo nel suo sacro compito - per cui era stato uno shock scoprire che mentre
si avvicinava sempre più al momento della sua morte, l'unica cosa che si
sentiva di far bene era il suo commiato da un uomo che non le apparteneva. Con
cui aveva avuto una storia di brevissima durata.
C'erano
state molte notti che aveva passato nella sua camera da letto su a Grande Camp,
cercando di convincersi che quello che era successo con Trez era pura follia,
ma ora che il tempo stava per scadere? Una strana lucidità si concentrò in lei.
E non importava il perché. Importava solo che lei raggiungesse l'obiettivo di
dirgli ciò che provava prima di morire.
Non voleva
avvicinarsi a lui troppo presto, però - sarebbe stato piuttosto imbarazzante
sviscerare la propria anima a una persona indifferente e poi indugiare per
notti, settimane, mesi.
Se solo la
sua fine fosse avvenuta in una data precisa, come se fosse la scadenza su un
cartone di latte…
Qhuinn uscì
dalla stanza d'ospedale, e l'espressione tesa sul suo volto duro spazzò via la
sua preoccupazione.
“Mi dispiace
tanto” mormorò lei. “Si rifiuta ancora?”
“Non riesco
a convincerlo.”
“La volontà
di vivere può essere complicata.” Selena allungò la mano e gliela poggiò sulla
spalla. “Sappiate che io sono qui per entrambi. In qualsiasi momento cambiasse
idea, io verrò.”
“Tu sei
davvero una femmina di valore.”
La strinse
in un rapido, duro abbraccio e poi corse giù lungo il corridoio, come se
volesse lasciare la struttura. Ma poi si fermò davanti alla porta chiusa della
sala visite principale della dottoressa Jane. Dopo un momento, entrò.
Mentre pregava
ci fosse una soluzione per i due fratelli, un'altra ondata di stanchezza la
investì, una più grossa di quello che l'aveva travolta davanti a Tohrment,
strisciando attraverso il suo corpo, facendole appoggiare una mano contro il
muro per paura di cadere. Il panico la sopraffece, il suo cuore pestava
selvaggiamente nel petto, la testa era inondata di fai questo, fai quello,
scappa. Cosa sarebbe successo se quello fosse stato un attacco? E se fosse
il suo ultimo -
“Ehi, stai
bene?”
Forzando i
suoi occhi vuoti a voltarsi verso il suono, vide Tohrment uscire dalla sala
visite.
“Io...”
All'improvviso,
la sensazione di vertigine scomparve, come se l'avesse avvicinata un rapinatore
che, confrontandosi con il Fratello, aveva riconsiderato il suo attacco.
Sotto la
tunica, lei sollevò una gamba e poi l'altra, non trovando alcun cenno della
resistenza fatale che la terrorizzava a morte.
“Selena?”
esclamò Tohr dirigendosi verso di lei.
Appoggiandosi
al muro, la sua mano corse allo chignon, e si accorse di avere la fronte madida
di sudore.
“Credo di
dovermi occupare di me stessa al Santuario.” Espirò. “Mi riprenderò lì. È
necessario.”
“È un'idea
eccellente. Ma sei sicura di riuscire a…”
“Sto bene.”
Chiudendo
gli occhi, Selena si concentrò e... con una rotazione dell'asse terrestre e una
scossa alle molecole del suo cervello, invece di quelle del corpo, si
smaterializzò e si ricompattò nel sacro luogo di pace della Vergine Scriba.
All'istante,
proprio come se avesse succhiato direttamente da una vena, il suo corpo si
alleggerì e fortificò, ma la sua mente non seguì l'esempio - nonostante il
verde brillante delle foglie degli alberi e dei fili d'erba, le tinte pastello
dei tulipani perennemente in fiore, il luminoso marmo bianco del dormitorio, il
Tesoro, il Tempio delle Scrivane Segregate, lo Stagno dei Riflessi, si sentiva
braccata anche se era chiaramente al sicuro.
Inoltre,
soffrire di una malattia mortale della durata indefinita rendeva difficile
riconoscere la differenza tra i sintomi che rientravano nella dicitura
"normale", e quelli di maggiore rilevanza.
Per un po'
rimase nello stesso punto in cui era arrivata, temendo, muovendosi, di
innescare la manifestazione della propria malattia. Ma alla fine, cominciò a
passeggiare. La temperatura dell'aria ferma era perfetta, né troppo calda né
troppo fredda, il cielo al di sopra brillava di un azzurro fiordaliso, le terme
risplendevano sotto la strana luce circostante... e si sentì come se fosse sola
in un vicolo buio nel centro di Caldwell.
Quanto
tempo? si chiese. Quante altre passeggiate avrebbe potuto godersi?
Tremando, si
strinse nella veste mentre un consueto senso di tristezza e d'impotenza irruppe
dentro lei, le schiacciò il petto, rendendole difficile respirare. Ma non si
arrese alle lacrime. Le aveva versate tutte qualche tempo prima, tutti i perché-io,
i cosa-succederebbe-se, e ho-bisogno-di-più-tempo erano terminati
- prova che ci si abituava anche all'acqua bollente se ci stava dentro
abbastanza a lungo.
Era venuta a
patti con la realtà che non solo non le era stata concessa una vita completa,
ma non avrebbe vissuto per niente - per cui, sì, doveva decidersi a salutare
per sempre Trez. Lui era ciò che più si avvicinava a qualcosa che poteva
definire suo, una scelta personale al posto di un'imposizione, un qualcosa che
aveva conquistato, anche se per poco tempo, non un compito che le era stato
assegnato.
Nel dirgli
addio, Selena riconosceva che parte della sua vita le era appartenuta.
Lo avrebbe
contattato il giorno seguente.
Al diavolo
l'orgoglio...
Dopo un po',
si accorse che i piedi l'avevano condotta al cimitero, e data la direzione dei
suoi pensieri, non ne era sorpresa.
Le Elette
erano essenzialmente creature immortali, create molto tempo prima come parte di
programma di procreazione della Vergine Scriba dove i maschi più forti si
accoppiavano con le femmine più intelligenti per garantire la sopravvivenza
della specie. In principio, le femmine fertili venivano messe in quarantena lì,
con il Primale come unico maschio a servirle per l'inseminazione. Tuttavia, col
passare dei millenni, il ruolo delle Elette si era evoluto in modo da servire
spiritualmente la Vergine Scriba, documentare la storia della Razza svoltasi
sulla Terra, adorare la Madre della specie, e fungere da fonti di sangue per i
membri della Confraternita senza compagne - per le quali alcuni avevano
abbandonato il proprio ruolo, accettando la mortalità in cambio dell'amore,
della libertà, della possibilità di generare bambini che non sarebbero stati
condannati da rigide tradizioni.
E poi era
arrivato l'attuale Primale, rinnovando anche le tradizioni più antiche.
Selena
guardò attraverso il traliccio ad arco del cimitero; le statue di marmo delle
sue sorelle si stagliavano minacciose nonostante fossero a una certa distanza e
nascoste nei loro verdi confini.
Per tutto
ciò di buono che l'antico programma di procreazione aveva fatto, ne era
risultato anche qualcosa di infido, una prigione da cui, per quanto il Primale
fosse di mentalità aperta, non poteva liberare Selena e le sue sorelle.
Nascosta nel
profondo delle cellule delle Elette, giaceva una debolezza critica latente, un
difetto creatosi proprio a causa del gruppo limitato di creature prescelte per
la procreazione per rendere i vampiri invincibili.
Un
sacrificio al fine di raggiungere la forza. La prova che la Madre della Razza
poteva essere, e sarebbe stata, limitata da Madre Natura.
Le statue
dall'altro lato la riempivano di terrore. Le eleganti figure all'interno del
terreno circoscritto in realtà non erano di pietra - non nel senso che erano
state scolpite da blocchi. Erano il corpi congelati di coloro che hanno
sofferto dalla sua stessa malattia.
Erano i
cadaveri delle sue sorelle che aveva percorso il sentiero calpestandolo con i
propri piedi, irrigidite in pose di loro scelta, sigillate in un bel intonaco
minerale che, insieme alle curiose proprietà atmosferiche del Santuario, li
avrebbe preservati per l'eternità.
Il tremore la
invase di nuovo come un'onda … e ancora una volta, si interruppe.
Questa
volta, però, la cessazione non accompagnava un ritorno alla normalità.
Come se la
vista di quei corpi paralizzati all'ultimo stadio fosse una sorta di
ispirazione nei confronti di ciò che l'affliggeva, le giunture più ampie della
parte inferiore del suo corpo si bloccarono, seguite dalla spina dorsale, i
gomiti, il collo, i polsi. Si paralizzò completamente, immobile ma del tutto
consapevole, il suo cuore che continuava a battere, gli occhi limpidi, la mente
iperattiva in preda al panico.
Con un
grido, provò a liberarsi di tutto, cercò di piegare le gambe, combatté per
spostare i piedi, le braccia, tutto.
Ci fu un
lieve cedimento sul lato sinistro, e che la sbilanciò. Dopo uno sbandamento e
una giravolta, cadde a terra a faccia in giù, i sottili fili di erba le
entrarono nel naso, nella bocca, negli occhi. Sapendo che rischiare di
soffocare, mise tutta la forza che aveva per voltare la testa di lato in modo
che le vie respiratorie fossero libere.
E quello si
rivelò essere il suo l'ultimo movimento.
Dal suo
punto di osservazione, era una telecamera rovesciata, la curiosa angolazione
del Santuario sembrava come proiettata su uno schermo: fili d'erba in primo
piano grandi come alberi, con il tempio dello Stagno dei Riflessi in
lontananza, di cui si vedeva solo il tetto.
“Aiuto...”
gridò. “Aiuto...”
Lottando
contro le proprie ossa, provò a ricordare l'ultima volta che aveva visto ogni
delle sue sorelle da quelle parti. Era stato...
Troppe notti
prima. E anche allora, nessuno si era avventurato fino a questo punto del
paesaggio, il cimitero veniva visitato di rado, e la zona esterna veniva
usata per i sacri riti di commemorazione… che non sarebbero avvenuti per molti
mesi.
“Aiuto!”
Con una
spinta immane, Selena combatté contro il proprio corpo. Ma tutto ciò che si
vide fu una contrazione della mano, le dita scivolarono sul prato.
E questo fu
tutto.
Le lacrime
le inondarono gli occhi, il cuore martellava incessantemente e, per assurdo,
lei desiderò non aver mai che chiesto una scadenza...
Dal profondo
delle sue emozioni, l'immagine del volto di Trez - gli occhi neri a mandorla, i
capelli rasati neri, la pelle scura - si compose nella sua mente.
Avrebbe
dovuto dirgli addio prima.
“Trez...”
gemette contro l'erba.
Mentre la
sua coscienza si affievoliva, fu una porta che si chiudeva dolcemente, ma con
fermezza, bloccando il mondo intorno a lei... tanto che non si accorse, qualche
tempo dopo, della piccola, silenziosa la figura che le si avvicinò da dietro,
fluttuava sull'erba, una luce splendente fuoriusciva al di sotto della tunica
nera ondeggiante.
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