THE SHADOWS
Ho deciso di riproporre come l’anno scorso la
traduzione di alcuni capitoli del nuovo libro della Ward con protagonisti Trez
e iAm, fino all’uscita della traduzione italiana della mondo libri.
Aspetto ancora con ansia altri vostri commenti e
prego di citare la fonte se mai vorrete prendere in prestito questa traduzione.
La traduzione è amatoriale e senza scopo di lucro.
Alcune parti non sono tradotte letteralmente perché
era impossibile trascrivere in italiano quello espresso in inglese, soprattutto
modi di dire.
CAPITOLO VII
In piedi
davanti al lungo specchio della sua camera da letto, Layla cercò di sistemarsi
addosso quella che avrebbe dovuto essere una mantella morbida, ma drappeggiare le
numerose pieghe sul suo ventre era come chiedere a un plaid di coprire un letto
king-size.
Abbassò lo
sguardo. Non riusciva più a vedersi i piedi, e per una volta nella sua vita, i
suoi seni erano grandi abbastanza da creare un vero solco sotto la sua veste.
Data la sua
ampiezza, era difficile credere che le mancassero ancora parecchi mesi per
portare a termine la gravidanza.
Perché i
vampiri non potevano essere più simili gli esseri umani? Quelle creature
inferiori impiegavano solo nove mesi. La sua specie? Almeno diciotto.
Con sguardo
da sopra la spalla, si controllò nello specchio della credenza. Secondo i vari
programmi sulla gravidanza umana che aveva visto in televisione, avrebbe dovuto
sentirsi raggiante. Avrebbe dovuto gioire dei cambiamenti del proprio corpo e
accogliere il miracolo del concepimento, della crescita, e infine del parto.
Certo che
gli esseri umani appartenevano proprio a una razza diversa.
L'unico
aspetto positivo ricevuto da questa esperienza, che senza dubbio era l'unica
cosa che contava davvero, era che il suo bambino era attivo e
apparentemente in buona salute. I controlli regolari con la dottoressa Jane
avevano indicato che tutto procedeva alla perfezione, le tappe fondamentali
erano giunte e passate, le varie fasi arrivate e se ne erano andate con grazia.
E questo
riguardava gli aspetti positivi. Tutto il resto? Ma anche no, grazie. Detestava
la nausea che la colpiva ogni santa volta che si metteva in piedi. I grossi
meloni incassati nel suo petto che le rendevano difficile respirare. Il
gonfiore alle caviglie e alle mani che trasformava gli arti sinuosi in tronchi
d'albero. Poi c'erano gli ormoni in fermento...
Che le
facevano venire voglia di fare cose che le femmine incinte non dovrebbero fare.
Soprattutto
visto con chi avrebbe voluto farle…
“Basta.
Adesso smettila.”
Si prese la
testa tra le mani e lottò contro il lancinante senso di colpa che era stato la
sua ombra quegli ultimi mesi, plasmandosi addosso come la propria pelle,
pesante come una cotta di maglia.
A differenza
della gravidanza, al cui termine il disagio e la preoccupazione sarebbero
cessati, non ci sarebbe stato alcun conforto con l'altra situazione. Nessun
evento da portare a compimento, almeno non uno che avrebbe portato gioia.
Chi è causa
del suo mal pianga se stesso, e lei aveva fatto la sua scelta.
Arrivò alla
porta della sua camera e la socchiuse, attenta a scorgere il rumore di passi.
Voci. Gli aspirapolvere in funzione. Quando non sentì più nulla, uscì nella
galleria delle statue e guardò a sinistra e a destra. Una rapida occhiata al
suo orologio le disse che aveva circa un'ora e mezza prima che il sorgere
dell'alba la costringesse a rientrare alla magione della Confraternita.
Una volta
fuori dalla camera avrebbe voluto correre, ma riusciva a malapena a camminare a
passo svelto mentre si dirigeva verso l'ala del personale.
Aveva
pianificato il suo percorso verso l'uscita in precedenza e in maniera
funzionale, era molto brava a gestire i dettagli. Le ci volevano sei minuti per
scendere le scale posteriori ed entrare in garage. Due minuti per raggiungere
l'auto che le avevano messo a disposizione e con cui usciva regolarmente
dicendo alla gente che andava a "schiarirsi le idee."
Sedici
minuti di viaggio costeggiando i terreni coltivati a est della città.
Due minuti a
piedi fino che al campo con l'acero al centro.
Dove
l'avrebbe aspettata…
“Layla?”
Lei
incespicò nei suoi piedi mentre si voltava. Blay era all'inizio della galleria
delle statue in tenuta da combattimento, con i pantaloni imbrattati e il volto
esausto.
“Ah … ciao”
rispose. “Sei di ritorno dal campo di battaglia?”
“Stai per
uscire?” Blay aggrottò la fronte. “È tardissimo.”
“Faccio solo
un giretto in auto” esclamò rilassata. “Sai, per schiarirmi le idee.”
Beata
Vergine Scriba, odiava mentire.
“Beh, sono
contento di averti incontrata prima che uscissi. Qhuinn non se la passa bene.”
Layla si
accigliò avvicinandosi al guerriero. Il padre della sua bambina era una delle
più importanti persone nella sua vita, al pari di Blay. Quella coppia era la
sua famiglia. “Perché?”
“Luchas.”
Blay sganciò il fodero del pugnale dal petto. “Si rifiuta di nutrirsi e Qhuinn
non sa più cosa fare.”
“È stato quasi
un mese fa.”
“Di più.”
Di solito,
se un vampiro maschio in salute si abbeverava alla vena di un'Eletta, potevano
trascorrere tranquillamente diversi mesi tra un nutrimento e l'altro, a seconda
dell'attività svolta, dallo stress, e dal quadro di salute generale. Tuttavia,
per qualcuno malato come Luchas? Molto più di una settimana o due potevano
trasformarsi velocemente in una condanna a morte.
“Dov'è
Qhuinn adesso?”
“Giù nella
sala da biliardo. Mi hanno richiamato prima dalle strade perché...” Blay scosse
la testa. “Già, non se la sta passando bene.”
Layla chiuse
gli occhi e poggiò una mano sulla pancia. Doveva andare. Doveva restare...
“Devo fare
una doccia.” Blay guardò la porta della stanza che divideva con Qhuinn. “C'è la
possibilità che tu possa stare un po' con lui fino a quando non arrivo?”
“Oh, sì,
certo.”
Blay allungò
una mano e le strinse spalla. “Avrò bisogno del tuo aiuto con lui. Questa
storia sta diventando...”
“Lo so.”
Layla si tolse il cappotto e non si preoccupò di riportarlo nella sua stanza.
Lo lasciò cadere sul pavimento di fronte alla propria porta. “Adesso scendo
giù.”
“Grazie.
Dio, ti ringrazio.” Si abbracciarono per un istante e poi lei si allontanò con
la sua andatura a papera diretta alla scalinata e dal maschio che le aveva dato
il dono inestimabile del bambino che portava in grembo.
Non c'era
nulla che non avrebbe fatto per Qhuinn o per il suo hellren.
Comunque,
era conscia del maschio che la stava aspettando in quel momento sotto
quell'albero di acero, fuori in quel campo.
La sua
coscienza la tormentava, soprattutto mentre passava davanti alla doppia porta
aperta dello studio del re. Attraverso la porta regale, vide il trono dietro la
grande scrivania intagliata... e ricordò perché aveva sancito il patto che
aveva stretto.
Aveva
venduto il proprio corpo al capo della Banda dei Bastardi affinché tutti lì
alla magione fossero al sicuro. Tuttavia l'accordo non era ancora stato
consumato per via della sua gravidanza, il che l'aveva sorpresa in un primo momento.
Xcor era un brutale guerriero, non solo di nome ma di fatto in realtà faceva del male agli altri,
godendone. Eppure con lei, sembrava contento di prendersi il suo tempo prima di
riscuotere ciò che gli era dovuto.
Si erano
incontrati regolarmente sotto quell'albero per parlare. O a volte semplicemente
per stare seduti in silenzio, con i suoi occhi che le scivolavano lungo il
corpo come se...
Beh, a volte
pensava che lui sembrava acquisire forza solo guardandola, come se la
connessione visiva fosse una specie di vena da cui aveva bisogno di abbeverarsi
a intervalli specifici.
Altre volte,
lei sapeva che la immaginava nuda, allora ripeteva a se stessa che avrebbe
dovuto sentirsi offesa da questo. Avrebbe dovuto esserne spaventata.
Preoccupata.
Ultimamente,
però, una strana curiosità che lo riguardava si era radicata sotto la paura,
una curiosità legata al suo corpo possente, agli occhi socchiusi... alle
labbra, sebbene quello superiore fosse rovinato...
Era tutta
colpa dei suoi ormoni e cercò di non soffermarsi sulle brame. L'unica cosa che
doveva tenere a mente era che fino a quando lei avesse continuato a
incontrarlo, lui aveva giurato su tutto ciò che per lui rappresentava l'onore
che non avrebbe fatto irruzione nel complesso.
Dopotutto,
l'unica ragione per cui lui conosceva la posizione del loro quartier generale,
era a causa sua.
Indirettamente,
forse, ma si sentiva come se quella falla nella sicurezza fosse solo colpa sua.
L'intero
accordo rappresentava un patto con il diavolo, eseguito per far sì che le
persone a cui lei teneva fossero al sicuro. Lei odiava le bugie, la doppia
vita, il senso di colpa... e la paura che prima o poi avrebbe dovuto onorare le
sua parte dell'accordo.
Ma non c'era
nulla che potesse fare.
E stasera,
la sua famiglia aveva la precedenza sul suo inganno.
Giù nella
sala visite principale del centro di addestramento, Trez stava vivendo
un'esperienza extracorporea mentre il vorticoso spostamento si fermava e
ancora una volta lui dovette ricalibrare la sua posizione. Grazie a Dio erano
tornati tutti interi. Ora, se solo ci fosse stato qualcuno in grado di
aiutarli.
Cullando tra
le braccia il corpo rigido e contorto di Selena, lanciò un'occhiata oltre la
sua spalla. La dottoressa Jane, la shellan di V, era in piedi da un lato
in completa tenuta da medico: camice blu, guanti in gomma nitrilica verde,
scarpette ai piedi. Però non si avvicinò a Selena. Rimase dov'era a fissarli,
per un tempo che a lui parve un'eternità.
Merda. Trez
non ne capiva di medici, ma in generale, quando qualcuno con un enorme
"Dottor" scritto davanti al proprio nome vedeva per la prima volta un
paziente, non doveva effettuare una visita completa?
Non era un
buon segno.
Rhage e V
erano al lato opposto, e allo stesso modo fissavano inebetiti lui e Selena,
come se anche loro non avessero nessun idea su come poter essere d'aiuto.
La dottoressa
Jane si schiarì la gola. “Trez...?”
“Chiedo
scusa, cosa ha detto?”
“Mi lasci
darle un'occhiata?”
Trez
aggrottò la fronte. “Certo … prego.” Quando la dottoressa Jane non si mosse,
Trez cominciò a perdere la pazienza. “Quale diavolo è il problema…”
“Hai snudato
le zanne e stai ringhiando. Ecco qual è il problema.” Fece un rapido autoesame
e scoprì che caspita, in effetti si era trasformato in Cujo, con il peso del
corpo infossato sulle cosce abbassate, sfoderando l'attrezzatura in dotazione,
e ringhiando come se avesse un tagliaerba industriale nel retro della gola.
“Già, mi
dispiace.” A quel punto, si accorse anche che era indietreggiato con la schiena
in un angolo e teneva Selena stretta al petto come se qualcuno stesse cercando
di portargliela via. “Quindi dovrei metterla sul tavolo.”
“Sarebbe un
buon punto di partenza” sottolineò V.
Il suo corpo
si prese il suo tempo con calma mentre lui dava il comando di muoversi avanti,
e alla fine, solo il fatto che lei aveva bisogno di cure per mano di qualcuno
che avesse anche solo mezzo cervello e uno stetoscopio lo convinse a
raggiungere il centro della stanza.
Abbassandosi,
la allungò sul piano di acciaio inossidabile - e lui rabbrividì perché era come
spostare una sedia di legno: il corpo di Selena rimase nella stessa posizione
in cui lui l'aveva trovato, le gambe tese, il tronco contorto, le braccia
rannicchiate al petto. E la cosa peggiore? La testa era rimasta voltata in
quella brutta angolazione, ritorta nella direzione opposta alle spalle come se
stesse soffrendo un enorme dolore.
La sua mano
tremava mentre le scostava i capelli dal viso. Aveva gli occhi aperti, ma non
era sicuro che lei fosse cosciente. Non sembrava concentrarsi su niente, di
tanto in tanto dei lenti battiti di ciglia erano l'unica indicazione che lei
era sveglia.
Che era
ancora viva.
Trez abbassò
il viso all'altezza dei suoi occhi. “Sei al centro di addestramento. Adesso
loro ti...”
Quando la
sua voce s'incrinò, ordinò a se stesso di mettere una dannata distanza da quel
tavolo e lasciare che la dottoressa Jane facesse il suo lavoro.
Incrociando
le braccia sul petto, marciò all'indietro fino a quando sentì una mano pesante
sulla sua spalla. Era Rhage. E Trez era abbastanza sicuro che il gesto fosse in
parte compassione, in parte l'assicurarsi che il maschio legato in lui non
decidesse di afferrare di nuovo le redini.
“Lasciali
lavorare” disse Hollywood mentre Ehlena, che era sia la shellan di Rehv
che l'infermiera, irruppe nella stanza. “Vediamo cosa abbiamo.”
Trez annuì. “Va
bene. Sì.”
Il buon
dottore si chinò e scrutò gli occhi opachi di Selena. Qualunque cosa le avesse
detto a voce troppo bassa per poterla sentire, ma il ritmo di Selena nel
battere le palpebre era cambiato - anche se era difficile capire se era un
bene o un male.
Pressione
sanguigna. Battito. Reazione delle pupille. I primi tre controlli si svolsero
in fretta, ma Jane non sprecò tempo nell'annunciare i risultati. Lei e la sua
infermiera continuavano a lavorare velocemente, misurarono la temperatura di
Selena, le inserirono una flebo sul dorso della mano, perché le curve dei
gomiti erano bloccate.
“Voglio
farle un elettrocardiogramma, ma non riesco a posizionare gli elettrodi sul
petto” disse la dottoressa Jane. Poi guardò oltre la spalla verso il suo
compagno. “Sai di qualche sindrome che causa questi effetti? È come un attacco
epilettico che irrigidisce tutto il corpo, solo le pupille restano reattive.”
“No. Vuoi
che chiami Havers per un consulto?”
“Sì. Per
favore.” Quando V uscì dalla stanza, Jane scosse la testa. “Ho bisogno di
sapere cosa sta succedendo nel suo cervello, ma non abbiamo né un apparecchio
per la risonanza magnetica né per la tomografia assiale computerizzata.”
“Quindi
dobbiamo portarla da Havers” esclamò Trez.
“Neanche lui
possiede quell'attrezzatura tecnologica.”
“Cazzo.”
Quando la presa di Rhage si strinse su di lui, Trez si focalizzò sul volto di
Selena. “Sta soffrendo? Non voglio che lei soffra.”
“Devo essere
onesta?” disse il dottore. “Non lo so. E fino a quando non capirò qualcosa sul
stato neurologico, non ho intenzione di imbottirla di farmaci che potrebbero
inibirle le funzioni. Ma mi muoverò più veloce che posso.”
Sembrò
volerci un'eternità, il tempo si fermò completamente mentre tutto quello che
lui poteva fare era guardare il complicato andirivieni medico intorno a quel
tavolo. E Rhage rimase accanto a lui, nei panni di una sentinella con funzioni
di babysitter mentre Trez cavalcava gli estremi del Me La Sto Facendo Sotto e
Voglio Farmi Saltare Le Cervella senza alcuna grazia.
E poi
l'Eletta Cormia spalancò la porta.
Nell'istante
in cui la femmina vide Selena, ansimò e portò entrambe le mani alla bocca. “Beata
Vergine Scriba...”
La
dottoressa Jane distolse lo sguardo dal prelievo di sangue che stava
effettuando sul dorso della mano di Selena. “Cormia, sai cosa potrebbe avere …”
“Lei ha la malattia.”
Tutti si
paralizzarono. Eccetto Cormia. L'Eletta corse al fianco della sorella e
accarezzò i capelli scuri di Selena, sussurrandole parole nell'Antico Idioma.
“Quale
malattia?” domandò la dottoressa Jane.
“La
traduzione dall'Antico Idioma è grossomodo 'l'Arresto'.” L'Eletta si asciugò
gli occhi. “Lei ha l'Arresto.”
Trez sentì
la propria voce fendere il silenzio. “Che cos'è?”
“Ed è
trasmissibile?” intervenne Jane.
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